Francesco Acerbi, oggi, è uno dei difensori più forti della Serie A. Mastino della Lazio seconda in classifica, centrale seriamente in lizza per un posto a Euro 2020. Un giocatore rinato. Perché qualche anno fa la sua vita era completamente diversa: impossibile dimenticare il cancro a un testicolo che ne ha influenzato anche la carriera.
Di questo Acerbi ha parlato in una lunga intervista alla rivista sportiva 'L'Ultimo Uomo'. Dando una rilettura diversa, e per certi versi sorprendente, alla malattia. E tracciando una sorta di spartiacque tra il prima e il dopo. Lo spartiacque del tumore.
"Non avevo la testa da professionista. Non avevo rispetto per me, non avevo rispetto per il mio lavoro, non avevo rispetto per chi mi pagava. Spesso arrivavo al campo alticcio, senza aver recuperato dai superalcolici della sera prima. Mi andava bene perché fisicamente sono sempre stato forte. Mi bastava dormire qualche ora e poi in campo rendevo comunque. Le serate non sono sbagliate a prescindere, il problema è che allora io esageravo. Diciamo che in quegli anni ero un po’ ignorantello. Pensavo a fare le mie due ore di allenamento, arrivavo tra i primi al campo, davo tutto e per me ero a posto così. Non pensavo minimamente a tutto il resto. A fare una vita da giocatore professionista anche oltre a quelle due ore".
Un modo di essere, di vivere, che per un nonnulla non ha convinto Acerbi a mollare il calcio.
"Volevo smettere di giocare. Non mi interessava più, non trovavo più stimoli. Lo dicevo al telefono a mia madre quando ci sentivamo e lei poveretta non sapeva bene cosa dirmi. Lo dicevo anche a Paloschi, eravamo legati: Palo voglio smettere, non ce la faccio più. Dai Ace che cazzo dici? Tieni duro! mi rispondeva lui".
E a quel punto, ecco il cancro. Una maledizione? Per nulla. Anzi: sorprende, a qualche anno di distanza, leggere la lucida analisi che Acerbi fa di quei momenti drammatici.
"Il cancro è stato la mia fortuna. Ringrazio il Signore per averlo avuto. Ho scoperto di essere ammalato a luglio del 2013, appena arrivato a Sassuolo. Operazione e dopo tre settimane ero di nuovo in campo. Non me ne sono nemmeno accorto e dunque non era cambiato niente. Continuavo a comportarmi da non professionista fuori dal campo. Sto accettando che sia andata così. Senza la malattia sarei finito a fare una carriera in Serie B, o magari avrei smesso. Per fortuna lassù qualcuno mi ha voluto bene e mi ha mandato la malattia. Senza sarei finito malissimo. Nessuno mi avrebbe salvato. Oggi sono soddisfatto della persona che sono diventato, nonostante tutti i miei difetti".